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giovedì, giugno 02, 2005

Dialogo con il paziente


RAPPORTO TERAPEUTA-PAZIENTE: TECNICHE DI COMUNICAZIONE ED EDUCAZIONE

Qualunque medico di famiglia avrà notato che, negli ultimi lustri, si è
passati da una pratica medica caratterizzata da un notevole numero di visite
domiciliari (che in ogni modo si mantengono, fisiologicamente nei periodi
invernali), ad una riduzione delle stesse verso una più affollata attività,
statica, presso i nostri ambulatori, gravata da un grosso armamentario di
test diagnostici e regimi terapeutici se non addirittura da presunte nuove
patologie alcune delle quali nate più da motivi commerciali che da vere
eziologie: intendo dire che se rapportiamo il numero delle domiciliari
rispetto a quelle effettuate in studio, stiamo da 1 a 5 in media.
Tranquillizziamoci però, questa constatazione non è così recente:
nel 1927 il Dott. Peabody la riportava sul Journal of American Medical
Association, aggiungendo però un1osservazione: 3la riduzione delle visite a
domicilio può essere un problema che non si pareggia con il valore
attribuito ai sempre più completi test diagnostici e strumentali; i giovani
laureati sono molto più periti di noi sulla patogenesi e sulla conoscenza
della malattia, ma rischiano di essere troppo scienziati e poco medici in
quanto non conoscono il paziente se non superficialmente, nulla sanno del
suo ambiente di famiglia né di quello di lavoro; dunque essi sanno curare il
paziente, ma sono incapaci di prendersene cura2.
Ciò che ci deve distinguere da altri colleghi, per il ruolo che ci compete,
è quello di prenderci cura dei nostri pazienti.
Come si fa?
Gli ingredienti sono solo tre:

a) La Comunicazione
b) Il Tempo
c) La Pazienza
d) Un pizzico d1Amore per il proprio lavoro e per le persone.

In merito ai punti b, c, d, ho poco da dire: il Tempo è necessario, non è
possibile fare il nostro lavoro con la fretta o con l1orologio sempre sotto
gli occhi; un massimalista sa che tra domiciliari e studio, la sua giornata
è di dodici ore.
Nascosta fra le pieghe del Tempo, c1è la Pazienza (di Giobbe): un medico
nevrotico o di cattivo umore non è utile.
L1Amore verso il lavoro e le persone aiuta il terapeuta ad essere efficace
sugli altri e leggero verso se stesso, ma ognuno di noi deve gestirselo
secondo come lo sente: questo non si può insegnare
Sulla Comunicazione invece si può fare molto.
C1è stato chi ha didatticamente inquadrato tre livelli di rapporto
terapeuta/paziente:

a) relazione attiva-passiva ( Up/Down)
b) relazione di guida-cooperazione
c) relazione di mutua partecipazione.

Non si può per principio dire che uno dei tre sia errato a scapito di un
altro: non dobbiamo dimenticare che il buon terapeuta deve calibrarsi in
base al soggetto che ha davanti, quindi in alcuni casi è necessario
mantenere tutta la propria autorità (a), in altri la stessa si riduce verso
una cooperazione un poco più attiva da parte del paziente (b); ma è
certamente con una mutua partecipazione (c) che la persona prende coscienza
dei suoi problemi e ne diventa maggiormente responsabile, perciò discorsi
irritanti che da qualche malato si sentono (3 il medico è lei, non io2 ecc.)
devono essere cortesemente ma fermamente respinti. Inducendo infatti una
responsabilizzazione di malattia e di cura si è anche meno esposti a
contenziosi medico-legali, poiché si è cancellato il ruolo passivo del
soggetto a favore di una chiara presa di coscienza dello stesso.

Il rapporto interpersonale della relazione terapeuta-paziente permette al
medico di ottenere valide informazioni, fornirle correttamente ed accertarsi
che siano comprese, soddisfacendo così il malato che potrà diventare
collaborante per raggiungere gli obiettivi preposti e concordati.

Il primo elemento è quello di riconoscere le aspettative del soggetto:
in genere chi richiede aiuto vive in uno stato d1ansia per il timore che i
sintomi che dovrà descrivere possano essere associati a qualche patologia
grave; pertanto essi tenteranno o di minimizzare i sintomi o di mistificarne
il contenuto:
se il medico non ascolta e parte da preconcetti clinici dovuti alla sua
conoscenza universitaria, spesso si infila in un tunnel che lo porterà a
conclusioni certe ma errate, secondo un percorso che è solo nella sua testa,
lontano dalla realtà; il paziente poi, tenderà a non contraddirlo o per
timore reverenziale o per timore della patologia, sfuggendo al problema
piuttosto che affrontarlo.
3Se io, medico, fossi paziente, come mi sentirei con un medico di fronte?2
Ecco la domanda chiave per iniziare al meglio un rapporto interpersonale.
La seconda domanda è:
3quali sono gli elementi base per un buon colloquio?2
Ecco le risposte:


FIDUCIA


RISPETTO COMPRENSIONE

Il Rispetto e la Comprensione derivano dalla considerazione che abbiamo
della persona stessa la quale potrà essere noiosa, ripetitiva, a volte
aggressiva, ma sempre una persona; da ciò si genera la Fiducia.
Se si conosce già il paziente, è buona regola controllare la sua cartella
clinica per evitare quelle amnesie momentanee, comprensibili, in merito alla
sua patologia o alla terapia somministrata la volta precedente: il terapeuta
vedrà così aumentata la propria considerazione
da parte del paziente;
se è una prima visita, occorrerà dare molta importanza ed attenzione ai
primi minuti del colloquio, sempre cruciali per instaurare un buon rapporto
di fiducia.
Dopo la reciproca presentazione, occorre prestare molta importanza al:

a) comportamento non verbale

b) al2 setting2.

Il modo con cui il soggetto si presenta, come stringe la mano, se guarda o
no negli occhi, il suo vestito, può dare dati più efficaci di un1anamnesi.
Importante è l1atteggiamento sulla sedia (sedersi in punta può essere un
segno d1insicurezza), come e dove guarda (cercare di non incrociare lo
sguardo del medico suggerisce una situazione imbarazzante), se accavalla o
no le gambe (segno di difesa o semplice abitudine), la posizione del capo
(inclinata posteriormente per ansia o paura, in basso ed in avanti per
tristezza), l1espressione del suo volto (occhi, sopracciglia e fronte
mostrano il più ampio raggio d1emozioni).

Il terapeuta per contro sarà molto attento al proprio tono di voce (meglio
quelli bassi, sempre rassicuranti), allo sguardo ( interessato ma non
inquisitore), alla postura ( il busto leggermente inclinato in avanti), alle
mani:
una mano sul viso, intorno al mento può essere interpretato come 3sto
pensando a ciò che mi dici e valuto la soluzione de problema2; una mano
sulla zona cervicale può far pensare 3il medico è stanco e magari non mi sta
ascoltando; una mano che scopre il polso per guardare palesemente l1ora, dà
l1idea della fretta e genera sempre una cattiva impressione.
Il medico inoltre darà importanza alla congruenza 3 verbale/non -verbale2 ed
alle ridondanze:
talvolta le persone, per paura o altro, razionalmente mistificano o
minimizzano un sintomo o un problema che invece la loro parte inconscia
manifesta assai chiaramente con il non-verbale; ad esempio alla domanda 3Ma
lei si sente bene2la persona può affermare 3sì2 scrollando la testa in un
chiaro 3no2.
Inoltre se il paziente dopo l1iter colloquiale continua a ribadire più volte
sempre lo stesso concetto, significa che non è soddisfatto delle risposte
ottenute, ed allora il terapeuta deve fermarsi a riflettere, rivalutando
tutto il caso.
Facciamo 3 un1inciso2.
Se il terapeuta apprende a conoscere e gestire queste tecniche in maniera
consapevole, potrà sfruttarle a proprio vantaggio per mandare segnali
inequivocabili attraverso il suo non-verbale; ad esempio alzandosi in piedi,
che il tempo concesso alla persona è scaduto e che si deve terminare
l1incontro.
Ma in modo, ripeto, consapevole.
Anche il2 2 setting 2 ha la sua importanza: se lo studio lo permette,
ricevere il paziente al lato della scrivania, anziché di fronte ad essa, può
essere utile nell1instaurare un rapporto fiduciario.

Le parole poi sono come macigni.

Ricevere il paziente che viene per un controllo con 3Qual è il problema2
oppure con 3Cos1è cambiato dall1ultima sua visita2, lo capite, è molto
diverso: nel primo caso si dà per scontato che ci sia qualcosa che non và ed
il soggetto farà del suo meglio per accontentarvi e dare importanza a
banalità patologiche, magari fuorvianti;
nel secondo, si ipotizza un cambiamento, che magari è peggiorativo, ma
almeno avete il 50% delle possibilità?
E1 inoltre opportuno partire con la tecnica dell12imbuto2a porre domande,
partendo, in altre parole da lontano con domande aperte (3 Come si è sentito
dall1ultima visita2), per restringere il campo (3Dice che sente dolore in
tutto il tronco, ma anche le spalle sono dolenti?2) fino a giungere alle
domande chiuse che inducono a risposte precise tipo 3sì2 o 3no2 (3Ma qui le
fa male o no?2).
Talvolta, durante la descrizione del problema, il soggetto può fare delle
associazioni automatiche alle quali il terapeuta deve porre attenzione: se
si sta indagando sul sintomo dolore ed il paziente ti dice che si sveglia
durante la notte ma non per il male, forse una causa dello stesso può essere
nel non riposare bene, e se non riposa bene può essere interessante
allargare il campo con domande del tipo2Ma come vanno le cose in famiglia
ultimamente? E sul lavoro?2. Magari si scopre che un dolore banale è
accentuato da uno stato distimico: in questi casi gioverà più un
antidepressivo a basse dosi, che un analgesico.
In seguito occorre:

1) Incentrare la conversazione su un problema alla volta;
2) Delineare le caratteristiche fondamentali ed il significato di ogni
problema al paziente;
3) Utilizzare affermazioni transizionali per permettere al paziente di
comprendere quando la conversazione si sposta da un argomento all1altro;
4) Riassumere brevemente e periodicamente i punti salienti della
conversazione;
5) Utilizzare un glossario calibrato sull1età e condizione socio-culturale
del malato;
6) Comunicare notizie, affermazioni importanti e terapie essendo certi
dell1attenzione del soggetto, non distratto ad esempio, dal rivestirsi dopo
la visita; in caso di dubbio ripetere per scritto la terapia.
7) Ricordare sempre che la comunicazione avviene anche con il contatto
fisico.

A questo proposito occorre ricordare che il medico è forse l1unico
professionista autorizzato a toccare il paziente violando una 2 privacy
corporea2: ciò genera sempre un certo imbarazzo, quindi è opportuno essere
sempre molto delicati e non incerti al tocco.
Se la mano del professionista è sicura infonde sicurezza, se incerta,
peggiorerà l1ansia; una mano può incoraggiare o consolare o stupire (3Sì, ha
proprio centrato il punto che mi duole, dottore2).

Al termine del colloquio occorre chiedere al paziente se ha altre domande,
se ha ben chiaro ciò che deve fare e come deve prendere i medicinali,
rassicurandolo che il suo medico è a disposizione (in orari e giorni
stabiliti) per essere rintracciato, continuando in tal modo a prendersi cura
di lui.
Molti terapeuti potrebbero obbiettare che i malati sono assai spesso
invadenti e non conoscono limiti al disturbo del medico.
Si può affermare che anche in questo sta l1abilità del professionista.
Il termine 3dottore2 significa maestro, vale a dire colui che educa.
Se il maestro è efficace, l2allievo2 dovrebbe confermare di aver appreso
dimostrando una buona comprensione della sua malattia, portando a termine
azioni favorevoli per la propria salute e ricavandone i conseguenti
benefici.
Una buona tecnica può essere quella di immaginare il colloquio che seguirà a
casa fra la moglie (o il marito) in ansiosa attesa: esso conterrà tutte le
possibili domande sul tipo, la gravità, l1evoluzione della malattia, la
speranza di vita, le cure, gli esami ecc.
Il Maestro dovrà essere chiaro ed esigente.
Dovrà prendersi cura del soggetto e mai fornire assistenzialismo 3a
pioggia2: ciò non esclude, ad esempio, una telefonata al collega ospedaliero
per chiarimenti in presenza del paziente o chiedere notizie anticipate
sull1esito di un esame o una telefonata inaspettata al paziente per avere
sue notizie o quant1altro; dovrà però essere chiaro il suo ruolo di2
caunsellor2 nella funzione d1aiuto e di 3coach2 in quelle esecutive;
trasformarsi in un impiegato o uno sportellista del SSN ne snaturerebbe
l1identità e l1efficacia nell1immaginario collettivo: ci si prende più cura
di un paziente invitandolo a presentarsi a breve per un controllo o a
telefonare eventuali variazioni di sintomi che teleprenotargli gli esami
dallo studio; quello può essere un buon servizio, ma toglie tempo al
colloquio, assai più importante.
L1educazione del paziente consiste anche nel dare poche regole ma chiare
sulla disponibilità del professionista, ad esempio:
il medico sarà a disposizione (vera e completa) in alcuni momenti della
giornata: negli altri sarà demandato ad altri colleghi.
Talvolta soprattutto con pazienti 3difficili2, può essere utile investire
anche il resto della famiglia alla soluzione dei problemi: crearsi degli
alleati che condividano e l1obiettivo di salute ed il percorso, facilita
molto il terapeuta.
E qui naturalmente ci hanno complicato la vita con la 3privacy2, ma talvolta
occorre forzare un po1 la mano, nei limiti dell1etico e dell1utile, per
poter essere efficaci ( nulla ci vieta di chiedere al paziente se possiamo
coinvolgere la famiglia ed in che misura).

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